Solimano Pezzella. L’arte di mostrare attraverso la fotografia la nostra parte sconosciuta

Solimano Pezzella. L’arte di mostrare attraverso la fotografia la nostra parte sconosciuta

Quando in Redazione mi hanno proposto di intervistare Solimano Pezzella ho accettato immediatamente con entusiasmo.

Principalmente perché per me fare le interviste è un piacere, e perché Solimano, per quel poco che posso dire di sapere di lui (ci siamo conosciuti qualche tempo fa, quando ho iniziato quest’avventura in Arteventinews e per puro caso ho avuto la fortuna di vedere il suo stupendo ambiente di lavoro), oltre a rappresentare un interessantissimo personaggio, è esattamente quello che si usa definire una gran bella persona.

Però, subito dopo aver detto di sì, mi sono posto il problema: “Che tipo di fotografo è? Cosa posso chiedergli sul suo lavoro che non ho già chiesto ad altri fotografi che ho intervistato? Cos’ha lui di così speciale?”.

E così mi sono “perso” nel web curiosando nel suo blog e nel suo sito web (solimanopezzella.it) e tra vari altri fotografi e fotografie, sino a quando mi sono imbattuto in una frase: «la fotografia non mostra la realtà, ma l’idea che se ne ha» pronunciata da Neil Leifer, uno dei più grandi fotografi sportivi mai esistiti; uno di quelli che hanno fatto la storia della fotografia di sport con immagini indimenticabili. E lì è scattato qualcosa. Forse ho trovato mi sono detto.

Solimano si occupa allora di sport? Starete pensando. Assolutamente no. Lui fotografa ben altro, però quella frase si attaglia in maniera perfetta a ciò che lui riesce a far vedere ai suoi soggetti. Solimano fotografa per la maggior parte persone, che quasi sempre non sanno neanche di essere ciò che poi riveleranno le immagini delle loro fotografie. Ecco perché probabilmente, giunti alla fine di queste righe, converrete con me che quella frase è quasi la sintesi del suo essere fotografo.

Ma detto questo, adesso seguitemi alla scoperta di Solimano Pezzella.

Chi è Solimano Pezzella?

Come si suol dire: classe 1971, nato a Pistoia. In realtà non mi sono mai posto la domanda. Semplicemente vivo. Vivo il momento, non senza domandarmi di tanto in tanto dove tutto questo mi porterà. Credo nel destino. Nella vita capitano avvenimenti nei tempi giusti che ti portano esattamente in un punto ben preciso; quale esso sia poi non ci è dato saperlo, semplicemente c’è, è lì, tu sei lì, e scopri che quello è il tuo posto. In realtà sono un artigiano che si è reso conto sempre di più di mettere il cuore in quello che realizza. Nonostante questo, non mi sento un artista; come diceva Francesco D’Assisi: “Chi lavora con le mani è un operaio, chi lavora con le mani e la testa è un artigiano, chi lavora con le mani, la testa e il cuore è un artista”.

E già questa prima risposta dice molto del personaggio che ho davanti. Come nasce la passione per la fotografia? Proseguo.

La fotografia intesa come fermare instanti mi ha sempre accompagnato nel corso della vita. Ho sempre adoperato mezzi per poterla fare, dalle macchinette usa e getta alle compatte, per poi passare dalle compatte digitali ai telefoni più performanti per realizzare foto almeno decenti.  Nel 2012 decisi di partecipare ad un corso di fotografia per iniziare a usare una reflex; volevo avere un po’ più di consapevolezza rispetto alla tecnica necessaria. Per poi finire con l’appassionarmi sempre di più, investendo nella fotografia maggiori energie di tempo e sacrifici.

Quando si pensa di poter passare oltre al “semplice” fotografare per se stessi, facendo diventare una professione ciò che nasce come passione?

Bella domanda questa. In realtà è arrivato tutto in modo piuttosto spontaneo e naturale, anche se poi non più di tanto. Ho attivato la partita iva (dando una veste più professionale quindi a quella che era semplice passione) appena ho iniziato a lasciarmi coinvolgere sempre più in ciò che amavo fare. E l’ho “dovuto” fare perché in tutto ciò che porto avanti sento il bisogno di essere il più possibile “in regola”. Senza questo primo importante e impegnativo passaggio burocratico, semplicemente avrei lasciato passare le opportunità professionali e le commissioni che piano piano mi si presentavano. Vedi Enrico, io penso che la professionalità debba essere prima di tutto nella testa e nei modi di porsi. Inoltre, anche quando il tutto era semplice passione, con il tempo mi sono reso conto che mi stavo occupando quasi sempre di temi sociali. E questo tipo di lavori, finché li fai per te, possono restare anche solo a livello di passione, ma quando inizi a farli per gli altri perché ti vengono commissionati, allora è inevitabile mettersi in regola ed essere a posto sotto tutti i punti di vista, anche con la propria coscienza.

 Tu di recente hai pubblicato un libro importante e “difficile” che ho avuto modo di apprezzare, nel quali narri, attraverso le tue immagini, il momento finale della vita di un uomo. Vuoi raccontarmi qualcosa del libro e del perché è nato?

Parli de “Il tempo del sollievo”, edito dalla casa editrice pistoiese Atelier.  In realtà quel libro è nato più per una necessità interiore. Mi era stato chiesto da Giancarlo, malato terminale, di fotografarlo nel periodo di fine vita. Queste foto sarebbero servite al dottore che lo seguiva con le cure palliative, per fare una ricerca e divulgare un messaggio: l’importanza della qualità di vita e della dignità di un paziente terminale, che non deve essere solo un numero di un letto in ospedale. Alla fine pensavo di dover soltanto fotografare ed ho accettato. Solo che con il passare di giorni, settimane e mesi, trascorsi fianco a fianco con una persona in questa situazione, sono stato travolto a livello emotivo in modo a dir poco spiazzante. Con il senno di poi forse avrei dovuto capire immediatamente che era inevitabile che questo accadesse. E una volta concluso quel percorso, avevo talmente tante emozioni dentro di me, con la necessità di buttarle fuori come fosse una liberazione, che ho iniziato a mettere su carta ogni singola frase, momento ed episodio passato in quel periodo. Così, alla fine, mi sono reso conto di avere in mano tantissimo materiale su cui lavorare per farlo diventare un libro.

Cosa rimane dentro dopo un’esperienza del genere?

Ti rimane la consapevolezza che quell’esperienza non la dimenticherai mai; una di quelle cose che non augureresti a nessun tuo peggior nemico, ma che ti ritieni onorato e fortunato di averla vissuta. Per me è stata una lezione di vita assoluta. Un’esperienza così ti cambia, anche se inconsciamente, in modo notevole. E di questo cambiamento ti accorgi solo con il passare del tempo.

Solimano Pezzella fotografo affermato. Dimmi qualcosa in merito alle mostre alle quali hai partecipato.

Ho iniziato con le mostre quando ho avuto la fortuna di rientrare in un circuito, o meglio, sono onorato di essere stato selezionato tra i migliori Polaroiders mondiali. Questo mi ha già permesso – e penso che mi darà la possibilità futura – (Covid-19 permettendo) di esporre in gallerie d’arte in giro per l’Europa. Ho “fatto” mostre a Colonia, Parigi, Arles, Bologna e in molte altre località italiane.  E questo, oltre a darmi la possibilità di viaggiare, mi onora, mi gratifica e mi dà credibilità rispetto al lavoro che realizzo.

Legandoci alla tua precedente risposta, parlami adesso di Solimano Pezzella e della tecnica Polaroid. Mi racconti qual è il motivo che ti spinge a utilizzare un qualcosa che alla maggioranza di noi profani sembra appartenere ormai al passato della fotografia?

Per quanto in molti pensino che la Polaroid non esista più, senza tema di smentita, ti dico che è invece attualissima, con sempre maggiori novità sul mercato, nuove fotocamere e accessori. Ho scelto le Polaroid per un discorso di approccio alla fotografia. La fotografia analogica che con questa tecnica realizzi, ti spinge ad allenarti per avere in testa e vedere lo scatto ancor prima di realizzarlo. Inoltre, dato che ogni caricatore ha solo 8 fotografie all’interno della macchina, questo limite ti costringe a pensare bene prima di scattare una immagine. In sintesi, questo metodo rappresenta per me una fotografia più riflessiva, che esige dei tempi diversi da quella digitale, ma ha come pregio il fatto di essere un’istantanea, realizzabile quindi senza dover aspettare tempi infiniti per lo sviluppo delle pellicole e della stampa su carta. Questo per me rappresenta un connubio perfetto. Riflessione sullo scatto che stai per fare, ma rapidità nell’avere immediatamente in mano il risultato su un supporto tangibile e tattile. In più, quel breve lasso di tempo di attesa che intercorre tra lo scatto e il vedere apparire l’immagine, rende il momento unico e magico.

E adesso è giunto il momento di provare a dare corpo alla frase citata in apertura del pezzo «la fotografia non mostra la realtà, ma l’idea che se ne ha». Solimano Pezzella e il suo progetto di ricerca dell’essere umano attraverso le immagini del corpo. Me ne parli brevemente?

Il corpo è una fonte di ispirazione infinita. È una corazza con addosso segni di lotte, sofferenze, gioie e dolori, non solo esterne ma anche interiori. Io non faccio altro che impressionare su fotografia questi vissuti.

 Da quanto ho capito quando ne abbiamo parlato prima, il tuo progetto è dedicato in modo particolare alla fotografia del corpo umano, visto spesso soltanto attraverso alcuni dettagli. L’insieme, o non viene “montato”, oppure appare quasi come un puzzle. Esiste un motivo particolare?

È la mia visione di fotografia. Io ho una visione fatta di dettagli; una fotografia molto ravvicinata perché difficilmente fotografo allontanandomi dal soggetto. Questo modo mi porta ad avere la solita visione anche quando realizzo una figura intera: tante porzioni ravvicinate che posso, se voglio, rimontare appunto come un puzzle per creare la figura intera. Questo però mi dà anche la possibilità di creare un’opera unica, in quanto realizzata sul momento con scatti singoli, e quindi proprio per questo unici e irripetibili.

 I tuoi soggetti, con quali intento si rivolgono a te? Cosa cercano in una fotografia?

 A livello tangibile cercano l’unicità, visto che come detto prima scatto quasi esclusivamente in Polaroid rendendo ogni singola fotografia un pezzo unico, irripetibile e irriproducibile. Certo, è possibile crearne copie stampate su vari supporti, ma la matrice resta e resterà per sempre unica. A livello emotivo invece spesso cercano di fermare un momento ben preciso della loro vita, ognuno con la propria storia e il proprio vissuto. Sai, come quando si aprono le scatole di scarpe dei genitori o dei nonni, e all’interno trovi le fotografie di una vita passata. Tu le guardi, le assapori, i pensieri ti fanno rivivere quei momenti, bloccati per sempre su un qualcosa di effimero ma tangibile e tattile.

Tu utilizzi l’arte della fotografia per “tirar fuori” dai tuoi soggetti ciò che loro stessi spessissimo non sanno di essere. Come ci riesci?

Questo bisognerebbe chiederlo a loro, perché sono loro che giungono, scatto dopo scatto, a vedersi e apprezzarsi per come sono, pur non credendo spessissimo neanche di essere come le mie fotografie li rappresentano. Sicuramente ci riesco da quando ho avuto l’esperienza di fine vita di cui ho parlato nel libro. È da lì che sono cambiato, riuscendo a cogliere nelle persone che ho davanti delle sfumature che prima forse non riuscivo a “vedere”. Questo per riportarti alla risposta di prima confermandoti che è più il cambiamento a livello inconscio che mi ha portato quella esperienza, piuttosto che quello che ti rimane dentro.

Secondo te, esiste un motivo perché a te si rivolgono in maggior parte le donne? Esiste forse nel lato femminile la necessità di riuscire a scoprire chi si è veramente?

Sicuramente confidarsi con il sesso opposto rende tutto più semplice, soprattutto quando questo è “uno sconosciuto”. Spesso è più facile parlare e aprirsi alle persone che sono più distanti. Però, più che “lo scoprire chi si è veramente”, direi che spesso la donna o chi ha una parte femminile, ha più bisogno di certezze e conferme. Io, attraverso il mezzo della fotografia, offro loro una sorta di aiuto. Quello che faccio è far vedere attraverso occhi diversi ciò che una persona ha tutti i giorni sotto i propri, perdendone però proprio per questo la reale percezione. Accade un po’ come per chi spesso conosce bene posti e località lontane da casa, ma non riesce a “vedere” i monumenti unici e straordinari che ha dietro l’angolo.

Perché utilizzi prevalentemente il bianco e nero?

Potrei risponderti nel modo più classico, dicendo che il bianco e nero aiuta a concentrarsi sull’immagine perché l’attenzione non viene distolta dai colori. In realtà all’inizio era una scelta tecnica, in quanto con le luci che avevo a disposizione quando ho iniziato a fare questa tipologia di fotografia non riuscivo a tirare fuori colori veritieri. Quindi iniziai a studiare ogni piccola sfumatura e tecnica per esaltare ogni potenzialità data dai giochi di luci e ombre, e in questo percorso il bianco e nero ha enfatizzato il tutto. Adesso realizzo opere anche a colori, ma do la preferenza sempre al bianco e nero.

 Il Covid ha interrotto in qualche modo il tuo progetto? E quali sono i progetti per la ripartenza?

Ha interrotto e nemmeno poco. Però ha avuto anche un lato positivo. Questo blocco forzato mi ha dato tempo per studiare, analizzare e sperimentare luci e attrezzature. Infatti, dopo un attento studio, appena mi è stato possibile ho cambiato tutto il comparto luci della sala posa, in modo da aumentare le possibilità e la qualità del mio lavoro e cercare di rendere ancor più uniche le realizzazioni. Per quanto riguarda invece le sessioni fotografiche, queste sono riprese, con la strettissima osservanza da parte mia di tutte le disposizioni e regole che esige il D.C.P.M anti Covid 19.

Ecco, in quello che attraverso le mie domande e le sue risposte vi ho raccontato, c’è un po’ di Solimano Pezzella. Lui ovviamente è anche moltissimo altro, ma nel suo lavoro di fotografo, che è soprattutto passione e poesia, possiamo sicuramente ritrovare la sintesi delle due frasi citate in questo articolo. In quella del grande fotografo, che a mio parere sintetizza alla perfezione il suo lavoro, e in quella di un Santo straordinario, che, naturalmente adattandola ai luoghi, tempi e persone, rende vivo e vero il suo essere allo stesso tempo operaio, artigiano e artista.

E spero proprio di essere alla fine riuscito a dare una risposta ai tre quesiti che mi ero posto all’inizio.

 

Questo articolo è già stato pubblicato sulla rivista online https://arteventinews.it/

Pubblicato da Enrico Miniati

Fiorentino di nascita vivo però da circa 20 anni a Iano, un minuscolo paesino sulla collina pistoiese. Scrittore per passione ho pubblicato 6 racconti di cui trovate sul blog le relative pagine.

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