“L’errore”. Con questo racconto, inizia la parte finale della storia pubblicata a puntate

Vi ricordate dove eravamo rimasti?

No? Va bene, allora vi aiuto, e per sommi capi vi riassumo il racconto sinora pubblicato:

Lui stava ricordando – o forse semplicemente sognando qualcosa di mai avvenuto? – una parte della sua vita. Lei seduta sotto il tempio di Poseidone in Grecia guarda il mare, e fissando una stella dice qualcosa di apparentemente incomprensibile. Lui era sul punto di confessarle qualcosa ma ancora non si decideva. Poi…

Una Storia

Parte Terza – L’errore

Forse l’errore stava tutto lì. Era l’errore che tutti gli uomini fanno da sempre. Cercare di mostrarsi forti e sprezzanti e vincitori quando forse basta avere il coraggio di chinare la testa e dire: ho paura. Giorgio Faletti

Un errore spesso è la causa diretta di una svolta improvvisa e imprevedibile della nostra vita.

Un errore che si rivela tale soltanto dopo che il danno è stato fatto.

E se lo definiamo errore, questo vuol dire che l’effetto è stato quantomeno negativo.

Per gli “antichi”, tutto quanto rivestiva una valenza sfavorevole, era da addebitare alla responsabilità che stava nell’aver commesso un errore: “amartia” in greco.

E conseguentemente sbagliare, significava fallire grossolanamente il bersaglio prefissato, indipendentemente dal fatto che il colpevole ne fosse consapevole, o che l’errore commesso fosse o meno un atto compiuto in modo volontario.

Ed è soltanto tornando idealmente a immergerci nella terra un tempo abitata dagli dei, che possiamo trovare il senso del terzo episodio che conclude, oltre alla storia narrata, anche quella di due sfortunati innamorati senza tempo. E.M.

 L’errore

Fra molti ma molti anni, in una casa di riposo per anziani… qualche tempo dopo.

«Dove eravamo rimasti?» domandò il vecchio, adesso quasi smarrito, alla ragazza in divisa bianca seduta davanti a lui su una poltrona di vimini sulla grande terrazza contornata dai monti.

«A Capo Sounion» rispose gentilmente.

«…sì… ha ragione… mi scusi ma questa è la parte più… difficile del racconto. Dunque, avevamo lasciato il tempio di Poseidone, ma non avevamo voglia di tornare al Pireo… specialmente io. E così dopo pochi minuti uscimmo dalla litoranea per fermarci su un lembo di spiaggia dorata. Ci eravamo seduti sulla riva del mare e mi ero finalmente deciso a parlarle, perché rimandare ormai non aveva più alcun senso».

«Parlarle? Di cosa?»

«Aspetti, non sia curiosa. Le ho detto prima di iniziare che era una storia lunga».

«Ha ragione, mi scusi ma sinora sembrava tutto così bello, una storia… perfetta e ora… lei mi sta facendo capire che…».

 «Il sole era ormai del tutto calato» riprese il vecchio, «ma quando smisi di parlare c’era ancora luce sufficiente perché potessi guardare i suoi occhi straziati… la spiaggia era deserta… il suono del mare che batteva languido il bagnasciuga faceva da colonna sonora a quel momento, e lo spettacolo che si presentava davanti ai nostri occhi… doveva essere meraviglioso».

«Doveva?».

«Sì ragazza mia, ha capito bene. Eravamo lì, seduti sulla sabbia ancora calda, vicini ma lontanissimi. Atterriti e attoniti, e guardavamo il mare, ma senza vederlo. A un osservatore esterno, sarebbe probabilmente sembrato che fosse il mare che stava invece guardando noi. Ma la sto annoiando?»

«Continui per favore».

«Eravamo ormai due mondi distrutti. Stavamo su quella striscia di sabbia che sino a pochi minuti prima sembrava essere il punto più bello del pianeta, muti, disperati, persi. Una busta era caduta nella sabbia, vicina ai miei piedi nudi e un foglio bianco, che lei aveva rabbiosamente appallottolato e gettato lontano, stava, sospinto dal vento caldo, lentamente rotolando verso la risacca».

Sommerso dal peso di quel ricordo, il vecchio si fermò. E lentamente, con la mano tremante, bloccò sul nascere una lacrima che voleva per forza uscire fuori da quegli occhi che adesso mostravano in maniera evidente il segno di una tremenda sofferenza.

«Riesce ad andare avanti? Oppure vuole che rientriamo?»

«Ognuno di noi era avvolto, o meglio, accartocciato nei suoi pensieri; nel suo dramma personale» ricominciò dopo aver fatto un cenno affermativo con la testa «i nostri occhi erano aperti verso quel “dannato” mare, che non vedevamo neanche più per via delle lacrime versate e per quelle che restavano sospese tra le palpebre. Ma erano soprattutto le nostre menti che non lo volevano vedere, stravolte dal dolore. Cosa interessava a quel punto quello che ci stava attorno? Lei era disperata e prostrata per quello che mi aveva sentito dire, ma soprattutto per quanto aveva letto su quel maledetto pezzo di carta; io ero angosciato, e affranto per ciò che le avevo appena confessato, e per il fatto che lei mi aveva con veemenza rinfacciato ciò che da tanto anch’io sapevo che avrei dovuto fare. Sapevo benissimo che avrei dovuto avvisarla immediatamente di quanto stava accadendo».

«Che me ne faccio di tutto questo?» mi aveva gridato alzandosi in piedi e guardandosi attorno angosciata «non è questo il viaggio che volevo fare. Non in questo modo! E non per questo motivo! Non per sentirmi dire addio da te. No! Noi non dovremmo essere qui».

«E posso chiederle in quella busta cosa c’era?»

«Teoricamente la mia condanna a morte».

«Condanna a morte? Non la capisco. Cosa vuol dire con teoricamente? E poi ha usato un termine tremendo. Perché?».

«Vede Martina, un mese esatto prima di partire avevo fatto alcune analisi senza dire niente a lei. Non volevo che si preoccupasse per me, e poi… immaginavo di essere immortale».

«E… invece?».

«Invece, come ben sappiamo, nessuno lo è. E in quella busta c’era scritto il mio destino: cancro al pancreas in uno stadio ormai avanzato. Aspettativa di vita: sei mesi al massimo».

«Ma è orribile» esclamò sbalordita e impressionata la ragazza aggiungendo però soltanto un istante dopo: «Ma… lei è… vivo. Non capisco. Cosa…».

«Non lo sapremo mai ragazza mia. Nessun medico può spiegare il perché io sia ancora qua. Nessuno lo può fare, ovviamente tranne me».

«E poi? Per favore continui» provò a insistere la giovane donna senza dare peso alle ultime parole appena ascoltate. «La prego, è così affascinante ascoltarla. E anche se questa non è una bella vicenda, ormai me lo deve finire il suo racconto».

L’uomo la guardò; sorrise, le prese teneramente una mano e sfiorandola con un gesto affettuoso le rispose: «Le ho già detto quasi tutto Martina. Ormai non manca molto e ora non è più il tempo per me di parlare. Adesso però vada, mi lasci solo per qualche minuto. Vede? È sorta la mia stella laggiù all’orizzonte e, come sa, devo incontrare una persona».

La ragazza capì che si doveva compiere il solito rituale di ogni sera. Ormai da sempre, quel vecchio chiedeva di essere accompagnato al tramonto su quella terrazza e di essere lasciato solo.

…continua…

Pubblicato da Enrico Miniati

Fiorentino di nascita vivo però da circa 20 anni a Iano, un minuscolo paesino sulla collina pistoiese. Scrittore per passione ho pubblicato 6 racconti di cui trovate sul blog le relative pagine.

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