I Ragazzi del Ponte. Una favola di Natale

I Ragazzi del Ponte. Una favola di Natale.

Era una fredda e luminosa settimana di dicembre, pochi giorni prima del Natale. Le scuole erano chiuse, e i ragazzi del quartiere del “Ponte” si ritrovavano liberi dai compiti e dalle lezioni.

Con l’aria fresca e cristallina, i ragazzi ingannavano il tempo passeggiando per le strade del quartiere, giocando interminabili partite di pallone, attraversando il ponte che dava loro il nome per scendere sul greto del piccolo torrente che discendeva dalle vicine colline, e lasciando che tempo scorresse, scrutando l’orizzonte con la curiosità tipica dell’infanzia.

Gli alberi erano addobbati con luci scintillanti, le vetrine dei negozi risplendevano di colori e l’odore di castagne arrosto si diffondeva nell’aria. Il quartiere, anche se modesto, era avvolto da un’atmosfera natalizia speciale, e i ragazzi erano desiderosi di vivere avventure e creare ricordi indimenticabili di quel periodo magico dell’anno.

Un pomeriggio, mentre tutti assieme stazionavano sul loro “muretto”, uno di loro, il più piccolo, che amava ascoltare le storie raccontategli dal nonno, tanto per ingannare il tempo decise di riportare a tutti gli altri l’ultima che aveva sentito la sera prima.

«Era una storia di fantasmi e di Natale» iniziò, subito interrotto però da una bambina che intervenne dicendo: «che cosa c’entrano i fantasmi con il Natale?»

«E che ne so; io vi racconto la storia, o almeno quello che mi ricordo, poi se vi piace va bene, se no, va bene lo stesso».

«Dai Massi racconta. Un’ stare dietro alla Diddi.» lo incitarono curiosi gli altri.

«Insomma, state zitti e ascoltate. Il mi’ nonno mi ha detto che l’ha sentita raccontare dagli americani o… dagli inglesi, non se lo ricordava bene, un Natale subito dopo la guerra».

«Il tu’ nonno la guerra l’ha fatta da i’ vinaio.» disse ridendo uno dei ragazzi.

«Americani? Tu vorrai dire che se l’è sognata dopo aver scolato un fiasco di vino» rincarò la dose un altro.

«Basta» disse allora offeso il piccolo Massi. «Io un’ vi racconto più nulla» concluse facendo il broncio.

«Dai, e si scherzava, un’ te la prendere e racconta».

«Allora state zitti, sennò smetto per davvero» fece il piccolo che però moriva dalla voglia di raccontare quella storia. «Parlava, ve l’ho già detto, di tre fantasmi, ma un’ mi ricordo bene se erano buoni o cattivi…».

«I fantasmi sono sempre cattivi» disse uno. «La mi’ mamma mi dice sempre che se non studio li chiama per portarmi via».

«Vaia Cuppe, un’ dire bischerate e lascialo finire».

«In questa storia c’era un tizio che si chiamava… Scrunge mi sembra, o forse Stronge, insomma, più o meno si chiamava in questo modo».

«Sbronze tu vorrai dire, proprio come i’ tu’ nonno» intervenne Antonio, per tutti i’ Totto.

«Basta! Un’ vi racconto più nulla!»

«Dai, continua, ora si sta zitti».

«Insomma, questo Scrunge era cattivissimo e avarissimo e un’ voleva bene a nessuno, e nessuno voleva bene a lui. S’era vicini a Natale e lui invece di fare qualche regalo, mi sembra che c’avesse un nipote, e dei nipotini, andò a casa sua, lo licenziò e lo trattò male. E lui, poerino, c’avea anche un bambino dimorto malato».

«Dio bono e l’era davvero cattivo».

«E te l’ho appena detto che l’era cattivo. Poi andò a casa, mangiò un bel pollo arrosto con un gran pezzo di pane, bevve un grosso bicchiere di vino, fece un gran rutto e disse: alla faccia di chi festeggia i’ Natale, e quando arrivò la notte, e faceva un gran freddo, tirava vento e nevicava, lui andò a letto, fece una bella scureggia e si addormentò. Però, a un tratto arrivarono tre fantasmi, no, aspettate, prima ne arrivò uno e poi… boh, un’ me ne ricordo, insomma da quando s’era addormentato a quando s’era risvegliato erano arrivati tre brutti fantasmi, cattivi e tutti storti».

«Ma i fantasmi e un’ son mica storti. E c’hanno il lenzuolo in testa, perciò un’ si vede mica come son fatti. Ma i’ che tu dici, vien via».

«Insomma; questa e l’è la storia che m’ha raccontato i’ mi’ nonno, i’ che ne so io di come e sono fatti i fantasmi».

 «E c’ha ragione.» disse uno dei ragazzi. «E poi chi se ne frega di come gl’erano fatti, basta che vada avanti».

«S’era rimasti ai tre fantasmi. Sprunge c’aveva una paura boia e gli chiese i’ che voleano da lui. Portarti via con noi, gli risposero, perché tu sei dimorto cattivo, basta vedere come tu gl’hai trattato i’ tu’ nipote».

«Sie» fece Costantino detto Zorba per via delle sue origine greche. «Ma icchè tu dici. Ora, secondo te, i fantasmi perdono tempo con questo qui. Come se un’ c’avessero nulla da fare».

«A proposito di fare» disse uno del gruppetto. «Perché un’ si va alla fabbrica bombardata? Laggiù dicono di averli visti per davvero i fantasmi degli operai morti».

«Ma è quasi buio.» disse un altro.

«Macché buio, tu sei un gran fifone. Sì, andiamo, e finiamo laggiù la storia. Così si vede chi ha paura dei fantasmi» disse uno dei più grandicelli.

Titubanti, ma decisi a non darlo a vedere, i bambini lasciarono così il tranquillo rifugio del muretto per inoltrarsi nei campi incolti che delimitavano l’estrema periferia del quartiere, fino a quando non arrivarono nei pressi delle rovine di una fabbrica distrutta dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.

Il vento freddo sibilava attraverso la campagna desolata, agitando le foglie secche e portando con sé un senso di crescente inquietudine. La luce fioca del crepuscolo gettava ombre scure e lunghe sul terreno, mentre i bambini, sempre più incerti e tremanti, avanzavano cautamente attraversando la distesa di erba secca.

A un tratto si bloccarono, gli occhi fissi sulla scena che si presentò davanti a loro: nello spiazzo antistante la struttura semi distrutta, un bagliore sinistro illuminava l’aria. Un fuoco ardeva alto lanciando ombre lugubri contro le macerie, mentre tre figure spettrali, con i contorni distorti e minacciosi parevano danzare davanti al falò.

Di colpo un senso di inquietudine si diffuse tra i bambini mentre la loro immaginazione dette corpo a una serie di immagini e scenari spaventosi.

Il crepitio del fuoco e il suono delle voci delle tre spaventose figure, trasportati dal vento, ora giungevano sino a loro, contribuendo ad alimentare quella che in breve si era trasformata in vera paura.

«Forse è meglio tornare indietro.» disse piano uno dei ragazzi, facendo seguire alle parole una veloce retromarcia, subito imitata da tutti gli altri, che in brevissimo tempo si trasformò in una fuga precipitosa.

E fuggirono così velocemente da non notare, oltre le rovine, un modesto tendone da circo appena innalzato, e a non sentire le parole gridate da una ragazza che nel frattempo si era avvicinata ai tre davanti al fuoco: «La cena è servita. Pagliacci, basta con le prove, venite subito a mangiare, perché tra poche ore il Circo Gratta farà il suo debutto».

Pubblicato da Enrico Miniati

Fiorentino di nascita vivo però da circa 20 anni a Iano, un minuscolo paesino sulla collina pistoiese. Scrittore per passione ho pubblicato 6 racconti di cui trovate sul blog le relative pagine.

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