I ragazzi del “Ponte”

I ragazzi del “Ponte” un racconto di Enrico Miniati

Dedicato a tutto ciò che siamo stati

Il racconto che andrete a leggere, scritto da me qualche anno fa e pubblicato nel 2020 all’interno di un volume intitolato “Racconti Toscani”, narra, sia pur romanzandolo, lo spaccato iniziale di una lunga storia di vite e di amicizie assolutamente reali. Una storia iniziata a Firenze, nel quartiere popolare del Ponte di Mezzo a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, sviluppatasi in quello che per tutti era semplicemente “il ponte” e proseguita assieme per tantissimi anni.

Qualcuno stenterà a credere che ciò che descrivo nelle prime righe corrisponda al vero, eppure… era proprio così. A scuola si andava e si tornava da soli, l’inverno faceva un gran freddo e l’estate era calda. E quei ragazzi, io compreso, vivevano trecentosessantacinque giorni all’anno indossando i calzoni corti dai quali sbucavano, in ogni stagione le loro gambe magrissime. Non erano ricchi, nessuno lo era al Ponte di Mezzo, ma neanche totalmente poveri. Solo che avevano tutti, o quasi tutti, soltanto lo stretto indispensabile. E questo bastava.

Detto così può sembrare una nota ingenua, semplicistica, ed è vero, ma dovete tener conto che allora eravamo bambini e guardavamo e vivevamo il mondo con gli occhi dei bambini. Però, quello di cui narro, era davvero un altro mondo. Un mondo che lentamente cercava di riassestarsi dopo le tragedie della guerra, nel quale gli adulti lottavano giorno per giorno tentando di accaparrarsi quella piccola fetta di benessere alla quale sentivano di avere diritto.

Vorrei avere il tempo di scriverne altri di racconti come questo, perché le “avventure” di quei ragazzi lo meriterebbero veramente, ma è difficile parlare di un periodo che tanto ci ha segnati tutti. E poi, più il tempo passa, e più il passato si fa confuso, irreale e surreale, tanto da rendere plausibile la domanda: ma è tutto vero ciò che racconti? che la giovane donna del racconto fa al narratore. Già, che bella domanda che è quella. E a volte, pure io che l’ho vissuta , sono portato a chiedermi se davvero  è stata quella che racconto la realtà dei “ragazzi del Ponte”.

I ragazzi del “Ponte”

Ci sono storie, pensò, tornando con la memoria a molti anni prima, che sembrano essere nate soltanto per essere un giorno raccontate. Storie piccole ovviamente, continuò, se poste accanto alla “Storia”, quella vera; ma anche in  queste, se solo sapessimo “leggerle” con gli occhi dei protagonisti, potremmo trovare che sono, o sono state, immensamente grandi e importanti, non soltanto per chi le vive o le ha vissute, ma anche per tutti coloro che hanno avuto l’occasione di esserne dei semplici testimoni. E questa difficoltà nel saperle interpretare per ciò che sono, sembra rappresentare spessissimo il destino di molti di noi: essere convinti di possedere un bellissimo “racconto” ma non avere nessuno che te lo racconti veramente come vorresti; o peggio ancora, averlo tutto in testa, ma non avere nessuno a cui raccontarlo.

E con la mente chiaramente proiettata su uno di questi racconti, improvvisamente l’uomo si bloccò e guardò davanti a sé, quasi stesse tentando di trovare nel nulla qualcosa o qualcuno che sapeva benissimo non esserci.

Tutto attorno a lui era reale: la poltrona su cui sedeva, la piccola stanza nella quale si trovava, la luce tenue che la illuminava, il piccolo letto nel quale un bambino di circa quattro anni lo fissava con amore e, raggomitolato sotto una coperta azzurra, sembrava aspettasse soltanto che lui parlasse.

«Allora nonno? Quando cominci?» disse alla fine spazientito il piccolo.

«Cosa vuoi che ti racconti stasera?» rispose lui sorridendo, tornando alla realtà.

«Una storia delle tue, di quelle inventate».

«Una storia delle mie dici? Una di quelle… inventate che tanto ti piacciono?»

«Sì dai, quelle del Ponte, con i bambini che hanno quei nomi buffi, divertenti. Una con Erri, Robi e Gabri».

E con il Nicche, il Totto, Acciuga, la Diddi, il Cuppe, Massimino e… tutti gli altri, proseguì silenzioso l’elenco nella mente dell’uomo, mentre con gli occhi della memoria li vedeva sfilare sorridenti davanti a sé. Si ricordava benissimo che erano un bel gruppo quelli; ragazzi e ragazze, talmente tanto amici da considerarsi fratelli senza neanche esserlo.

Un gruppo unito, affiatato, libero e divertente ma stranamente chiuso a qualsiasi intrusione esterna, e arroccato nella difesa della sua unicità e del territorio in cui viveva che considerava una cosa propria, esattamente come avrebbe fatto un branco di lupacchiotti.  Eppure, pur nella loro visione periferica del mondo e tra le mille difficoltà quotidiane, dove spesso per i genitori mettere insieme il pranzo e la cena rappresentava un problema, lui ricordava come tutti assieme avessero trascorso felicemente gran parte della loro gioventù, seduti, e non solo virtualmente, su di un mitico, magico muretto, costituito dalla spalletta di un ponte, posto proprio nel punto d’accesso principale al quartiere, mentre sullo sfondo, laggiù, poco oltre le case popolari, nella parte che si apriva verso la vicinissima campagna, la facevano da padroni ruderi di fabbriche bombardate e spazi desolati e abbandonati, già allora inquinatissimi a causa degli scarichi rilasciati dalle industrie in via di ricostruzione post bellica.

E quel ponte, e tutto ciò che per lui aveva rappresentato quale stupendo punto di osservazione sull’umanità che attorno vi gravitava, era divenuto adesso il principale protagonista delle piccole ingenue storie che quasi ogni sera raccontava al piccolo per farlo addormentare.

Le storie del “Ponte” le chiamava. Storie nate attorno ad un piccolo manufatto gettato sopra un altrettanto piccolo fosso che in quel contesto, allo stesso tempo semplice e difficilissimo, con il trascorrere degli anni, da semplice vocabolo si era trasformato in nome proprio, sino a diventare esso stesso quasi un vero personaggio per tutti coloro che in quel quartiere ci vivevano: per gli adulti, insieme di anime  tragiche e bellissime, personaggi , autori e interpreti di un continuo incessante spettacolo umano che quasi sempre a loro insaputa andava svolgendosi in quello stupendo, miserabile quartiere popolare della periferia nord di Firenze, e per i ragazzi, che di quell’umanità e del suo continuo e apparentemente inutile  affannarsi, avevano fatto un teatro, sino a far diventare quel mondo e quel modo di vivere la palestra di quella che sarebbe stata, una volta lasciata l’età d’oro della spensieratezza giovanile, la vita vera, quella purtroppo da vivere con i suoi crucci e i suoi affanni.

Ma per lui che adesso ne narrava le vicende, e per tutti coloro che come lui, quel “Ponte” e quel periodo l’avevano veramente vissuto, quello, inevitabilmente e a dispetto di tutto, non potrà che rimanere per sempre solamente uno stupendo spettacolo al quale avevano avuto la fortuna di essere ammessi a partecipare, e che è stato, e forse rimarrà, almeno come ricordo, la parte migliore della loro vicenda umana.

«Però nonno stasera parti dall’inizio» insistette il piccolo i cui occhi, ormai quasi vinti dal sonno, iniziavano già a chiudersi. «Raccontami per prima cosa di quando quei bambini erano ancora piccoli».

«E va bene. Allora anche stasera ti racconterò una delle mie storie. Ora però mettiti comodo sotto la copertina e ascolta».

Accarezzò la bionda testolina e iniziò a narrare: «Tutto cominciò così…» si fermò un istante sorridendo e piegando leggermente in avanti la testa, quasi avesse dinanzi a sé altre persone ad ascoltarlo oltre al bambino; parve raccogliere le idee; poi senza altre esitazioni ricominciò:

«Molto ma molto tempo fa, a Firenze, sul finire degli anni ‘50, un freddo quasi “polare”, come da tantissimo tempo non si avvertiva, sembrava voler fare a gara con la pioggia e il fango per stabilire a chi dovesse spettare il merito di far aumentare la desolazione del quartiere. Tutto era assurdamente bianco, e tutto ciò che si vedeva era ricoperto da una miriade di aghi ghiacciati formati dalla brina sui campi e dalle sottili lastre di ghiaccio formatesi nelle pozzanghere lasciate dalle gelide piogge dei giorni precedenti.

Erano poco meno delle otto di mattina e un folto gruppo di bambini, tutti con dei grembiulini neri e un grande fiocco al collo, indossati sotto a cappottucci sdruciti, andava verso la non troppo distante scuola elementare, scherzando e ridendo di niente, come soltanto i bambini sanno fare.

Avevano da poco attraversato la strada, in verità pochissimo trafficata, che tagliava in due il quartiere, lasciandosi alle spalle il ponte in muratura sul torrente Terzolle.

Non c’erano adulti con loro; in quei giorni nessuno si prendeva la briga di accompagnarli, semplicemente perché si riteneva che non fosse necessario farlo. I bambini sapevano benissimo dove dovevano andare e sapevano altrettanto bene come fare per arrivare a scuola evitando i pericoli. E la scuola, ovviamente per niente amata dalla stragrande maggioranza di loro, era diventata un luogo quasi mitico in quei giorni freddissimi; un tiepido rifugio dove per qualche ora era possibile dimenticare il freddo che immancabilmente la faceva da padrone anche nelle loro case.

E se per riscaldarsi lo scotto da pagare era ricevere qualche sonoro ceffone tirato dal maestro di turno per i compiti non fatti, questo non riusciva assolutamente a togliere ai bambini la voglia di andarci in quella benedetta scuola.

Scuola Elementare Goffredo Mameli era il nome che aveva dato il Comune di Firenze all’edificio nel quale erano diretti, e ovviamente nessuno di loro sapeva chi fosse costui, ne cosa avesse mai fatto per aver meritato addirittura una scuola tutta per sé; e naturalmente neanche sapevano se in quel momento lui fosse morto o vivo. Ai bambini non interessava, e tutto sommato, neanche ai loro rari parenti che di lì a qualche ora, alla spicciolata, si sarebbero radunati davanti all’ingresso in attesa di sentire la campanella che annunciava il termine delle lezioni.

La scuola in quel tempo era molto diversa da quanto ci sembra essere adesso. Il maestro, maschio o femmina che fosse, era rispettato e temuto allo stesso tempo, sia dai ragazzi che dai loro genitori, e il suo ingresso in classe veniva salutato ogni mattina da un «buongiorno signor maestro» gridato in coro mentre tutti si alzavano in piedi.

I maestri, dato il loro ruolo di educatori, e la scarsa propensione dei genitori ad assumersi anche quei compiti, avevano, quasi per un diritto divino, sempre ragione; persino quando non l’avevano del tutto e per ottenerla non rinunciavano a utilizzare spesso e volentieri le “buone maniere”. E ogni qualvolta qualche piccola “vittima” tentava di farsi consolare dalla mamma raccontando di essere stata strattonata per un orecchio o colpita da un bello “scapaccione”, immancabilmente finiva per buscarle una seconda volta, perché, senza porsi alcuna domanda sul reale svolgimento dei fatti, dagli adulti veniva sempre applicato il dogma secondo il quale si stabiliva che: «se te l’ha date vuol dire che te le meritavi». E il malcapitato, assieme a questo ritornello che si sentiva propinare, riceveva per tutta ricompensa anche un sonoro ceffone.

«Ma allora erano cattivi quei maestri?» intervenne impressionato il bambino. «Le mie maestre sono più brave, loro non ci picchiano mica».

«No, non erano cattivi. Solo che a quei tempi… usava così…» tentò di giustificarli il narratore ricordando quasi con affetto i colpi ricevuti e riprendendo il filo del racconto dal punto in cui questo si era interrotto.

«Ma stai tranquillo, perché nessuno ci rimaneva male o sentiva veramente del dolore, dato che tutto, ceffoni compresi, faceva parte di quel loro piccolo, difficile, meraviglioso mondo.

E dopo la scuola, c’era, immancabile, il ritrovo sul ponte.

In realtà, quello che attirava i ragazzi era un basso muretto che fungeva da spalletta sul quale erano soliti sedere per parlare, giocare con niente e guardare le rare auto che lentamente passavano. E mentre guardavano e crescevano, attorno a loro il mondo girava; con le bottegucce di alimentari, l’edicola, la pompa di benzina, il barbiere, e il circolo sportivo e culturale Assi Virtus, frequentato dai “più grandi” e oggetto di impaziente curiosità e voglia di entrarci, mista alla paura di lasciare un giorno per quello la protezione del gruppo.

E fu proprio lì, su quel muretto, che qualche anno dopo quella freddissima mattina, un bel giorno i nostri eroi videro arrivare un personaggio misterioso che sembrava rappresentare un qualcosa di mai visto e che mai si sarebbero aspettati di vedere sul ponte, dato che quello era il loro regno, il loro territorio, un luogo esclusivo, privatissimo; invalicabile e vietato a tutti i ragazzi e le ragazze che non facevano parte del quartiere.

Ciò che quel giorno si presentò, invece altro non era che un ragazzo. Un normalissimo ragazzo della loro età, solo che non l’avevano mai visto prima. Aveva due occhi, due mani, due gambe, esattamente come loro, ma nonostante questo rimasero a guardarlo come se venisse da Marte.

Il nuovo arrivato, oltre a quanto detto sopra, aveva un’enorme massa di capelli neri, ispidi e ricci e il suo colorito sembrava essere leggermente più scuro di coloro che lo scrutavano guardinghi. Stava lì, in piedi, guardandoli in silenzio, quasi fosse timoroso di parlare.

«Chi sei?» gli chiese a bruciapelo la Diddi, una ragazzina sveglia e sfrontata che tra tutti loro fu la prima a riprendersi dallo stupore.

«Mi chiamo Costantino» fu la risposta. «E abito nelle case rosse, quelle in fondo al quartiere».

«In fondo al quartiere?» esclamarono in coro i presenti. «Ma allora tu sei un…».

«Greco» completò lui la frase alludendo al fatto che il complesso di case popolari da cui proveniva era abitato esclusivamente da italiani espatriati forzatamente dalla Grecia dopo la seconda guerra mondiale.

«E che cosa vuoi da noi? Lo sai che qui non vogliamo nessuno. Siamo già tanti e ci bastiamo da soli, non ci servono nuovi amici».

Nonostante quella risposta sgarbata, il nuovo arrivato non abbassò gli occhi. «Io invece voglio essere vostro amico» rispose deciso inaspettatamente. «E non sono greco, ma italiano, proprio come tutti voi. I miei genitori sono nati in Grecia, è vero, ma siamo italiani. E voglio entrare a far parte del vostro gruppo».

«Insomma ragazzi» disse un ragazzino magro come il manico di una scopa con un gran ciuffo di capelli sopra gli occhi. «Chi se ne frega se è greco. Non sappiamo nemmeno dov’è questa Grecia. L’importante è che lui sia del quartiere e sappia giocare a calcio. E poi le case rosse sono vicinissime. Per me va bene».

«Anche per me» fece un altro. «Tra noi abbiamo già un americano che è anche molto più nero di lui, due cinesi, un tedesco e altri che non sappiamo neanche da dove vengono» concluse riferendosi, senza neanche saperlo, ai frutti lasciati dagli eserciti invasori che pochi anni prima si erano succeduti in Italia.

«Ma… non puoi» insistette un altro. «E con quel nome così strano che hai… Costantino! Fa ridere quel nome… e poi qui tutti noi abbiamo un soprannome. Io sono il Cuppe, lei è la Diddi, lui e Gabry, quell’altro è il Totto, poi c’è Erri, Acciuga, il Talpa e tantissimi altri che un nome vero non l’hanno mai avuto. E a te come potremmo chiamarti? No, non è possibile…, Costantino non è roba per noi. Non puoi restare, devi andartene».

«Zorba! Chiamatemi Zorba. Zorba il greco; così avrò anch’io il mio soprannome e in questo modo sarò uguale a voi» disse fieramente il ragazzo.

«Zorba? Come quello del film? Ganzo!». Esclamò allora uno dei ragazzi seduti sulla spalletta del ponte.

«Zorba. Sì, mi piace» sentenziò infine uno dei più grandi, quello che sembrava essere il capo. «Benvenuto tra noi e…»

L’uomo si interruppe senza finire la frase perché una giovane donna era entrata senza far rumore nella cameretta e gli si stava rivolgendo a bassa voce: «Babbo, il piccolo si è già addormentato. Adesso puoi andare, è tardi e la mamma ti aspetta. La tua favola gliela finirai domani».

«La mia favola? Sì, hai ragione, la mia favola…» rispose il vecchio guardando con amore la testolina bionda ora immersa in un profondo sonno, semi coperta dal lenzuolo che la giovane nel frattempo gli aveva sistemato addosso. «La mia favola dici? Sì, la finirò domani se lui la vorrà sentire».

«Ma certo che vorrà, lo sai che le adora, e del resto anch’io. Ma babbo, quello che gli racconti è davvero la verità? Ti ho ascoltato e quel che dici sembra incredibile. È davvero accaduto tutto questo? I bambini, il freddo, la scuola, il muretto su quel ponte? Sembra un mondo inventato, tanto è talmente diverso dal nostro. Ed è vera anche la storia di quel ragazzo? È esistito davvero?»

«Zorba dici? E le mie storie? Mi chiedi se sono vere e se quel mondo di cui parlo è mai esistito?»

L’uomo aprì la porta di casa per uscire e baciò la figlia sulle guance prima di risponderle: «Il Ponte, Zorba, il Nicche, il Cuppe, la Diddi e tutti gli altri… no che non sono veri. Non possono essere esistiti tempi, luoghi e persone così incredibilmente fantastiche. E poi lo sai com’è, per i vecchi, sono convinti che il loro passato sia stata la cosa più bella del mondo, e anche per me ovviamente vale la stessa regola. No, sono soltanto storie le mie» concluse sorridendo beato, chiudendosi infine la porta alle spalle.

«Solo che quelle storie io le ho vissute veramente tutte» mormorò avviandosi.

E se ne andò via, immaginandosi sottobraccio al suo amico Zorba il greco.

 

 I Ragazzi del Ponte è stato pubblicato nel 2020 sull’antologia Racconti Toscani edita da Historica

 

Pubblicato da Enrico Miniati

Fiorentino di nascita vivo però da circa 20 anni a Iano, un minuscolo paesino sulla collina pistoiese. Scrittore per passione ho pubblicato 6 racconti di cui trovate sul blog le relative pagine.

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